giovedì 13 febbraio 2014

Volontariato e burnout -fare del bene senza farsi male



di Mariapaola Ramaglia, educatrice e volontaria N.E.A.V.A.  

      Chi svolge professioni d’aiuto subisce un duplice stress: quello personale e quello di chi si deve aiutare. Non sempre è facile essere vicini all’altro, mantenendo un giusto distacco emozionale, ma un eccessivo coinvolgimento può far superare la soglia di tolleranza del burnout (letteralmente, “bruciato, scoppiato, consumato, esaurito”) e, a quel punto, fare del bene inizia a far male.

Molti studi evidenziano che gli operatori sanitari rischiano il burnout, ma minimo è ancora il riferimento a chi opera in ambito ospedaliero come volontario, che, spesso, si dà per scontato abbia capacità ed energie sufficienti ad affrontare questo tipo di attività.

Lodevole, in tal senso, l’impegno di NEAVA–onlus nel formare e seguire i volontari ospedalieri con attenzione, poiché il fatto di non essere retribuiti, essere disponibili solo poche ore e non essere responsabili di scelte terapeutiche, non li rende immuni da questa sindrome da stress, che -anzi- talvolta li riguarda ancor più subdolamente.

Dopo un iniziale entusiasmo idealistico -che porta anche ad abusare dei propri limiti fisici ed emotivi (overtraining)- il volontario può iniziare, infatti, a sentire il peso di problemi e sofferenze altrui, rendendosi conto che non sempre le aspettative coincidono coi reali risultati del proprio impegno. L’interesse e la gratificazione, allora, possono lasciare il posto a delusione e graduale disimpegno (stagnazione) e può subentrare un senso di frustrazione, nella convinzione di non essere più in grado di aiutare nessuno. Pian piano, all’empatia possono sostituirsi indifferenza e apatia, fino al rifiuto del proprio ruolo e al desiderio di fuggire.

Tuttavia, il volontario potrebbe decidere di proseguire il proprio servizio, anche con malavoglia o disagio, magari, perché non c’è nessuno che possa sostituirlo o per senso di colpa o senso del dovere, col rischio di “scoppiare”, pur di continuare a negare i propri bisogni personali, le proprie difficoltà o le proprie debolezze.

Le cause del burnout  sono legate:
  • Ad aspetti della personalità: introversione, iperattività, eccessiva intransigenza verso se stessi e gli altri, difficoltà a gestire emozioni, stress e difficoltà; 
  • Alle motivazioni che hanno portato a diventare un volontario: eccessiva idealizzazione del ruolo di aiuto (“io ti salverò!”), scarso riconoscimento dei propri  sforzi, percezione dell’inefficacia del lavoro svolto; 
  • Allo specifico ambito di intervento: scarsa integrazione con la struttura, assegnazione di compiti eccessivi o inadatti, mancanza di autonomia e del senso di comunità. 
L’insoddisfazione è “un indicatore attendibile del malessere o del burnout esperito dal volontario” (Marta e Scabini, 2033).

Sintomi e conseguenze:
  • Esaurimento fisico: mancanza di energia, frequenti mal di testa, insonnia, disturbi gastrointestinali, cambiamenti nelle abitudini alimentari, uso di farmaci; 
  • Esaurimento emotivo: apatia, senso di svuotamento interiore, tensione, impazienza, nervosismo, depressione, demotivazione, problemi familiari e relazionali; 
  • Depersonalizzazione: allontanamento/rifiuto verso chi si dovrebbe aiutare; 
  • Non realizzazione personale: crollo dell’autostima, senso di impotenza e fallimento, inadeguatezza e pessimismo.
Prevenire e combattere il burnout, però, si può. Ecco come:
  • Partecipando a corsi di formazione/aggiornamento, che preparino alla relazione d’aiuto, insegnino le difese psicologiche minime e modelli di relazione e comunicazione più efficaci ed illustrino i campanelli d’allarme del crollo psico-fisico; 
  • Stabilendo obiettivi e aspettative realizzabili; 
  • Evitando un ipercoinvolgimento; 
  • Rendendosi consapevoli di sé (possibilità, emozioni e limiti); 
  • Prendendosi una pausa se necessario; 
  • Coltivando anche altri interessi, che distraggano e rilassino; 
  • Collaborando e confrontarsi in modo costruttivo con altri volontari e operatori; 
  • Chiedendo aiuto a specialisti, se si ritiene di non farcela.
Per potersi prendere efficacemente cura degli altri, bisogna prima imparare a prendersi cura di se stessi.

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